Ce la farà Bersani a dar vita a un governo, seppure con il timer azionato? Le analisi e le previsioni che inondano vecchi e nuovi media rischiano di lasciare in ombra quella che mi sembra la vera svolta (un cambio di paradigma e di linguaggio) che si è consumata in questi giorni sul Colle.
Per la prima volta nella nostra storia repubblicana al cospetto del Presidente non si sono presentati solo leader politici con proposte, strategie e tattiche diverse (ma enunciate condividendo uno stesso codice). Napolitano è stato piuttosto testimone dell’esordio, in un così alto contesto istituzionale, del confronto-scontro tra due idee di democrazia che in questa fase della “grande transizione” appaiono difficilmente conciliabili.
Da un lato il linguaggio, le regole, la prassi e i riti propri della democrazia rappresentativa e dei suoi tradizionali vettori: i partiti (anzi, si potrebbe forse dire l’unico partito tradizionale sopravvissuto nel bene e nel male, il Pd). Dall’altro le istanze del tutto nuove (almeno in quella sede) di quella che lo storico francese Pierre Rosanvallon ha proposto di chiamare controdemocrazia, una “forma politica” figlia della “società della sfiducia” che si esprime e si organizza <in tre modalità principali: i poteri di sorveglianza, le forme di interdizione, l’espressione di un giudizio>. Come dire la “ragione sociale” del M5S.
Una controdemocrazia che se un lato sta già producendo effetti benefici sul sistema che vorrebbe abbattere (ma grazie al fatto di esserci entrata con un cospicuo numero di parlamentari), dall’altro fatica a salvaguardare il proprio Dna “orizzontale” in presenza di una leadership carismatica e visionaria come quella della coppia Grillo-Casaleggio.
Le due democrazie salite al Colle possono anche essere descritte con altre aggettivazioni: procedurale e istantanea, per esempio. Nelle stanza del Quirinale più che proposte diverse sono entrate “visioni” radicalmente diverse. Basti pensare che tra le forze politiche a consulto da Napolitano ce n’era una che fin dal 2007 – in occasione del primo “V-Day” a Bologna – al grido “i partiti sono morti” preconizzava già una democrazia che ne potesse fare a meno.
Come spiega il politologo Marco Revelli nel recente “Finale di partito” (Einaudi), nella visione generale sottostante alle battaglie moralizzatrici di Grillo e del M5S non è prevista la metamorfosi dei partiti, ma semplicemente la loro fine. Fine <che tuttavia non significa contemporanea estinzione del modello democratico – scrive Revelli – ; anzi si annuncia una sua restaurazione in una forma più pura e originaria: secondo il profilo di una democrazia diretta resa possibile, finalmente, da una tecnologia capace di azzerare il peso delle dimensioni spaziali e numeriche (i fattori che imposero la democrazia rappresentativa). E di ripristinare le condizioni primordiali dell’Agorà nella Polis>.
Il “fiducia a nessuno” pronunciato da Grillo e ribadito dai suoi capigruppo parlamentari sembra trarre forza più da questa visione di fondo che da specifici contenuti che il M5S potrebbe condividere con i suoi “corteggiatori” Pd e Sel.
Gli abiti procedurali della democrazia rappresentativa vanno stretti ai profeti della democrazia istantanea della Rete. È con i “morti” (i partiti) non si parla.
Se non fosse che quel luogo in cui la controdemocrazia ha fatto il suo ingresso in forze si chiama Parlamento, e che non scomparirà per far posto alla Rete dall’oggi al domani, le due democrazie salite da Napolitano sembrerebbero destinate a non parlarsi (per ora). Ma in questo “vecchio” contenitore il dialogo è ancora possibile, naturalmente. E la sua possibilità dipende in larga misura proprio dall’orizzontalitá del dibattito interno al M5S.