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Se la democrazia fallisce

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“Il mondo di Hitler potrebbe non essere così lontano”, titolava qualche giorno fa "The Guardian" online un lungo stralcio dell'ultimo lavoro di Timothy Snyder, storico di Yale. Il titolo del più recente saggio di Raffaele Simone, linguista di reputazione internazionale ma da diversi anni ormai osservatore a tutto campo del nostro tempo ("Come la democrazia fallisce", Garzanti, pp 215, euro 17) è meno "terroristico". Ma sicuramente fornito di un apparato argomentativo che ci dovrebbe mettere in guardia rispetto al rischio concreto di veder dissolvere una dopo l'altra quell'"ammirevole complesso di risorse e delle protezioni di cui hanno goduto tutti, anche quelli che nella democrazia non credevano". In altre parole: potremmo aver già imboccato la via senza ritorno che quella cancellatura sopra la parola “democrazia” nella copertina del libro sta a designare. L'autore non ha dubbi e lo chiarisce fin dalle prime pagine: «Tutti i pilastri dei sistemi democratici (istituzioni, mentalità, mitologia) sono meno stabili, se non addirittura traballanti».
Il viaggio di Simone attraverso la storia del pensiero (non solo politico) su cui in Occidente si è costruita la democrazia è ricco di riferimenti ad autori classici e non, di cui si sottolinena soprattutto quella che potremmo definire la parte più disincantata rispetto all'ipotesi democratica, per giungere alla conclusione, o meglio alla premessa, secondo cui «a differenza di quelli che si perseguono in altri ambiti, i principi fondamentali della democrazia sono propriamente inattuabili». Perché allora sono sono stati così in auge in Occidente? si chiede l'autore. Perché sono ideologicamente veri, «cioè guidano le convinzioni e il comportamento politico, anche se a volte sono molto ostiche ad accettarsi». Falsi, e solo ideologicamente veri.
«Naturalmente - spiega Simone - questa "falsità" non è dovuta a malizia dei proponenti o ad altri fattori deliberati. Al contrario è dovuta all'audacia dell'ipotesi che risulta nel suo radicale rifiuto dei postulati del "pensiero naturale" al quale ne oppone altri positivi ma estremamente impegnativi». La democrazia è faticosa, esigente, potenzialmente soccombente di fronte al "pensiero naturale", che l'"hobbesiano" Simone descrive come la minaccia più originaria, costantemente in agguato, pronta ad approfittare dell'intrinseca fragilità della costruzione democratica fondata sulle finzioni vere.
Simone è un martellatore di mitologie. All'alba degli anni Duemila, in piena espansione della mitologia della Rete, con "La terza fase" (Laterza) mise in guardia contro le "forme di sapere che stiamo perdendo" (a cui seguì qualche anno dopo "Presi nella rete"). Oggi, dopo una lucida incursione nei territori della politica con "Il mostro mite" (Garzanti), che faceva i conti con la crisi della sinistra in Occidente all'affacciarsi del XXI secolo, torna a colpire. E lo fa con le armi che sono proprie a un intellettuale che non ama i recinti disciplinari. Con uno scavo che per parlare di democrazia va a dissodare il terreno della cultura di massa, dei suoi riti e dei suoi miti, soprattutto della sua "mentalità", puntando sul quel coacervo di spensierate convinzioni secondo cui tutto è dato una volte per tutte: il nostro benessere, i nostri diritti, la piacevolezza delle nostre vite da questa parte del mondo, quello democratico.
Insomma non sono solo fattori esogeni (globalizzazione, dittatura dell'economia, migrazioni…) a minare la democrazia, ma anche (o meglio, insieme) fattori endogeni, che vanno ricercati con un lavoro più sociologico e che politologico nelle pieghe della società ipermediatizzata, "stanca", deresponsabilizzata, convinta che la democrazia sia una Fata che tutto concede senza nulla chiedere.
Da qualche tempo in Francia (con riverberi sul dibattito culturale del nostro Paese) si discute di quella sorta di "Rive droite" animata da intellettuali come Régis Debray, Alan Finkielkraut, Michel Onfray e Michel Houellebeq. Certo, risulta difficile arruolare Simone in una “nuova destra” nostrana, anche se una fetta consistente della sue argomentazioni possono prestarsi ad essere etichettate da una parte della sinistra come reazionarie.
La democrazia fallisce, infatti - secondo Simone - anche per le politiche poco responsabili e "accoglienti" sul grande fenomeno migratorio. Fallisce per una mal digerita cultura dei diritti, per quelle "concezioni estreme dell'eguaglianza e della libertà" figlie di un Sessantotto mai morto, appunto perché diventato "mentalità", senso comune. Con il conseguente corollario che l'attacco all'autorità è diventato una sorta di humus politico. Attacco che - rileva Simone - naturalmente «riuscì in particolare verso gli obiettivi più fragili e meno difesi, come la sfera dell'istruzione e le relazioni tra le persone».
Insomma la democrazia fallisce non solo perché le finzioni su cui si basa hanno smesso di essere obiettivi, ma perché ciò che ne rimane ha spesso il volto del "piagnisteo democratico", da parte di cittadini che se da un lato non sarebbero disposti a rinunciare a nessuna delle magìe dipensate dalla Fata democratica, dall'altro sono disgustati da alcuni principi cardine dell'ipotesi democratica. L'autore ne indica tre sopra tutti: i principi di uguaglianza, sovranità e rappresentanza. «Il mondo globalizzato - osserva - esalta ed estremizza oltre misura le disuguaglianze e dell'uguaglianza lascia solo il guscio, che consiste nel fatto che si è uguali nel momento di votare. Ma il voto stesso si è svuotato: i cittadini sanno bene che ormai non sono loro a fissare l'agenda politica dei governi e dei parlamenti. Il sostegno elettorale che danno con il loro voto serve solo come lasciapassare ai rappresentanti e non a indicare temi e priorità».
Con il lavoro di Simone l'analisi del "Disagio della democrazia" (Carlo Galli) si arricchisce di un nuovo capitolo che negli ultimi anni ha visto fiorire studi importanti: oltre al citato Galli, si ricordino almeno i lavori di Colin Crouch sulla “Postdemocrazia” e di Pierre Rosanvallon sulla “Controdemocrazia”. Il lieto fine non c'è nel libro di Simone: il futuro - secondo l'autore - è destinato a un quadro di democrazia «”in senso debole" (a tacere di soluzioni più drammatiche)». Un futuro «che risponderebbe anche all'acuta e perturbante previsione di Kelsen: siamo proprio in uno degli intervalli del dramma dell'umanità, cioè tra la fine di una guerra mondiale e l'inizio di un'altra guerra, geograficamente ancora fluttuante, in cui gli avversari, benchè mal definiti e impersonali sono vicini e si lasciano sentire: l'immigrazione incontrollata, lo sfruttamento rovinoso del pianeta, il capitalismo finanziario, la sovrappopolazione mondiale, il terrorismo politico e la criminalità organizzata». In questo quadro «i cittadini rinunciano via via a ogni tipo di partecipazione, a partire da quella elettorale, realizzando uno schema di democrazia a bassa intensità».


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