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Putin nel deserto di Trieste

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Questa mattina mi sono alzato di buon’ora. Volevo fare due passi (fin dove era consentito) nella “città blindata”, come viene definita con poco sforzo di fantasia e quasi si trattasse di un un arricchimento estetico, ogni città a cui tocchi in sorte di ospitare un summit.
Non mi sfugge l’importanza del vertice, naturalmente. Più  per i suoi contenuti economici che per quelli politici o geopolitici, vista la disparità delle forze in campo. Gas, collaborazioni industriali, turismo… Non è necessario essere  l’Ucraina per pesare l’importanza dei rapporti economici con Mosca.
Eppure, passo dopo passo in una città quasi spettrale, non riuscivo a evitare l’insinuarsi  in questa consapevolezza di qualche pensiero stupido, ingenuo,  su che cosa sia veramente la Russia post-sovietica. Sulla differenza tra un gulag e il carcere siberiano dove è rinchiusa una ragazza di 24 anni (madre di un figlio di 5) colpevole di blasfemia (politica e religiosa); sull’impossibilità di celebrare, a 8 anni di distanza, il processo per l’assassinio di Anna Politkovskaja perché parte dei giudici se la sono data a gambe; sul blitz costituzionale che ha dato il via libera a un terzo mandato di Zar Putin caratterizzato da una marcata svolta liberticida… Sulla “strana” morte per avvelenamento da polonio di un ex oligarca oppositore dello zar.
Mi sono fermato su una panchina, ho estratto il tablet dalla borsa, e ho cercato la voce “Realpolitik” su Wikipedia. Dice così: “È un termine usato per descrivere politiche basate su di una concreta pragmaticità, rifuggendo da ogni premessa ideologica o morale. Traducibile anche come pragmatismo politico nel contesto internazionale identifica, ad esempio, scelte basate più su questioni pratiche che su principi universali o etici”.
Ah ecco, mi sono detto. Anche se continua a sfuggirmi perché sia un termine caduto in disuso per descrivere i rapporti con un Paese  in cui – per usare un’espressione coniata da Predrag Matvejevic – vige una “democratura”, vale a dire “una democrazia apparente, in realtà dittatura”.
Poi ho provato a concentrami di nuovo sull’importanza del vertice. No, giuro, non mi sfugge.
Ma ancora una volta mi sono distratto. E a distrarmi è stato il volto del potere che si manifesta fisicamente nel vuoto della città presa in ostaggio, resa solo parzialmente agibile anche dove forse non servirebbe,  ma non si sa mai. Il volto della distanza. E forse l’inutilità, l’eccesso che sembra dettato più da una “volontà di potenza” che dalle reali necessità di sicurezza. Forse, mi sono detto, al KGB sovietico dalle cui file Putin proviene, non sarebbe stato necessario desertificare e fermare Trieste per garantire la sicurezza di Breznev.

Questa mattina mi sono alzato di buon’ora. Volevo fare due passi (fin dove era consentito) nella “città blindata”, come viene definita con poco sforzo di fantasia e quasi si trattasse di un un arricchimento estetico, ogni città a cui tocchi in sorte di ospitare un summit.

Non mi sfugge l’importanza del vertice, naturalmente. Più  per i suoi contenuti economici che per quelli politici o geopolitici, vista la disparità delle forze in campo. Gas, collaborazioni industriali, turismo… Non è necessario essere  l’Ucraina per pesare l’importanza dei rapporti economici con Mosca.

Eppure, passo dopo passo in una città quasi spettrale, non riuscivo a evitare l’insinuarsi  in questa consapevolezza di qualche pensiero stupido, ingenuo,  su che cosa sia veramente la Russia post-sovietica. Sulla differenza tra un gulag e il carcere siberiano dove è rinchiusa una ragazza di 24 anni (madre di un figlio di 5) colpevole di blasfemia (politica e religiosa); sull’impossibilità di celebrare, a 8 anni di distanza, il processo per l’assassinio di Anna Politkovskaja perché parte dei giudici se la sono data a gambe; sul blitz costituzionale che ha dato il via libera a un terzo mandato di Zar Putin caratterizzato da una marcata svolta liberticida… Sulla “strana” morte per avvelenamento da polonio di un ex oligarca oppositore dello zar.

Mi sono fermato su una panchina, ho estratto il tablet dalla borsa, e ho cercato la voce “Realpolitik” su Wikipedia. Dice così: “È un termine usato per descrivere politiche basate su di una concreta pragmaticità, rifuggendo da ogni premessa ideologica o morale. Traducibile anche come pragmatismo politico nel contesto internazionale identifica, ad esempio, scelte basate più su questioni pratiche che su principi universali o etici”.

Ah ecco, mi sono detto. Anche se continua a sfuggirmi perché sia un termine caduto in disuso per descrivere i rapporti con un Paese  in cui – per usare un’espressione coniata da Predrag Matvejevic – vige una “democratura”, vale a dire “una democrazia apparente, in realtà dittatura”.

Poi ho provato a concentrami di nuovo sull’importanza del vertice. No, giuro, non mi sfugge.

Ma ancora una volta mi sono distratto. E a distrarmi è stato il volto del potere che si manifesta fisicamente nel vuoto della città presa in ostaggio, resa solo parzialmente agibile anche dove forse non servirebbe,  ma non si sa mai. Il volto della distanza. E forse l’inutilità, l’eccesso che sembra dettato più da una “volontà di potenza” che dalle reali necessità di sicurezza. Forse, mi sono detto, al KGB sovietico dalle cui file Putin proviene, non sarebbe stato necessario desertificare e fermare Trieste per garantire la sicurezza di Breznev.


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