Gridare stanca. L’iperdemocrazia logora in fretta i suoi seguaci, pronti a tornare nel limbo del non-voto se il loro voto, con la sua spinta emotiva, pre-politica, sanzionatoria, non ha prodotto altro che un prolungamento di campagna elettorale a urne chiuse. Il flop del M5S – prima alle elezioni regionali del Friuli Venezia Giulia e l’altro ieri alle amministrative – va forse spiegato attingendo alle stesse radici che solo tre mesi fa ne avevano decretato il boom. E non c’è analisi sulla diversità tra il quadro nazionale e quello locale che tenga, di fronte a un tracollo così plateale. C’è dell’altro, un di più.
Il tentativo, in gran parte riuscito, di dar vita a un trust dell’onestà, della diversità e del cambiamento costruito sulla spettacolarizzazione della coppia oppositiva noi-loro, che spiegava in parte il boom del “grillismo” alle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio, si è radicalizzato fino a diventare la parodia di se stesso. E la diversità di quel “noi” non ha mai potuto venire alla luce in campo aperto, visto che il generale Grillo ha ordinato alle truppe scelte mandate in Parlamento da quasi 9 milioni di elettori di restare in trincea a spulciare scontrini e continuare a sparare, ormai a salve, contro di “loro”.
1981, 1992-‘94, 2013: nella storia recente le principali tappe della questione morale, dalla sua prima lucida formulazione da parte di Enrico Berlinguer a oggi, raccontano di sussulti morti in culla. Anzi, in quell’arco di tempo si è assistito a un progressivo indebolimento del tessuto morale della politica e a un moltiplicarsi di impresentabili e corrotti, sullo sfondo di una cosa pubblica – di uno Stato, direbbe Grillo tagliando corto – ridotta a “mangiatoia”. Ecco, è probabile che buona parte dell’elettorato trasversale del M5S abbia sospettato che anche questo sussulto è destinato a morire in culla; e ha dirottato la stessa carica “punitiva” che ha decretato il successo del Movimento alle Politiche sui suoi “liberatori”, così riluttanti a trasformare quella carica in presenza politica effettiva, capace di imprimere una svolta giocando la partita fino in fondo.
La trasversalità del voto al M5S alle elezioni politiche trovava prima facie una spiegazione nell’ecumenismo di un Verbo capace di creare “in negativo” potenziali fedeli, i quali non condividevano il più delle volte né lo status sociale e professionale, né l’età o la provenienza politica e geografica. E quel Verbo era un “no” liberatorio alla Casta, condito da una retorica che ha avuto e ha buon gioco a sparare nel mucchio, a far passare l’idea di un “loro” che fa poche distinzioni tra Nicola Cosentino e Rosy Bindi. Il gioco “in negativo” del grillismo ha dimostrato però di avere il passo del centometrista, più che del fondista.
Pd e Pdl non hanno nulla da festeggiare, beninteso: l’emoraggia continua. Tuttavia il rapidissimo “riflusso” del M5S sembra dimostrare una ben maggiore volatilità dell’elettorato di Grillo rispetto a quelli del centrodestra e del centrosinistra, che si assottigliano ma non si squagliano. I due partiti delle “larghe intese” fanno i conti con i mal di pancia dei rispettivi elettori, pagano il prezzo dell’astensionismo. Ma non nella misura del M5S. Perché se anche l’elettorato berlusconiano e quello del centrosinistra (in misura assai minore) sono trasversali sotto il profilo sociale, lo sono molto di meno sul piano culturale, “antropologico”.
È necessario però tornare alle ragioni del boom del grillismo alle elezioni politiche per comprendere meglio il rapidissimo sboom. A cominciare dal ruolo giocato dalle qualità del leader e dal suo messaggio. Tra gli ultimi botti di Berlusconi e il prolungato allenamento di Renzi, Beppe Grillo ha esercitato la sua arte teatrale e la sua abilità retorica in un modo così professionale da apparire “vero”. Anche perché la Verità gioca un ruolo importante nella sua strategia comunicativa. Non si passa all’incasso di 8 milioni 689 mila voti solo gettando la Rete. Bisogna essere Grillo, riempire il palcoscenico come Grillo. «È così che il tribuno-aspirapolvere è riuscito dove i movimenti anti-Casta (radicali, girotondi, popolo viola…) hanno fallito: nel raccogliere l’universo polverizzato e centrifugo delle mille proteste in un unico frame…», sintetizzava efficacemente Michele Smargiassi sulla Repubblica del 10 marzo 2013, dopo il voto alle Politiche.
Verità e semplicità. Ovvero: la verità è semplice e adesso ve la spiego io. Si tratta forse di una versione più colta di quella “prepotenza della semplicità” – secondo l’efficace definizione dell’antropologa Linda De Matteo – che ha caratterizzato il leghismo. Ma soprattutto più “metropolitana” e portatrice di giochi di verità più convincenti e multidisciplinari rispetto al corpus della Lega Nord. Grillo ha amplificato e finché ha potuto ha soddisfatto il bisogno di vedere una verità, di demistificare l’intera architettura politica, economica culturale come una “truffa”. E lo ha fatto sulle piazze da capopopolo politico come lo faceva in teatro da comico.
La spettacolarizzazione della verità, insieme alla denuncia dei portatori infetti di menzogne, ipocrisie e interessi inconfessabili (i giornalisti in quanto tali), sembrava rendere meno problematico il compito di “saper leggere il libro del mondo”, per dirla con un verso di De Andrè, a un elettorato vittima dell’information overload e forse ancora un po’ spaesato nella nuova era dell’auto-comunicazione di massa. Ma c’era lui, attor-comico, politico e giornalista d’inchiesta insieme. Gatekeeper d’eccezione in un mondo troppo complesso e comunicativo: non leggete i giornali, dicono il falso; il giornale sono io e dico il vero. Ha funzionato, semplificato, ha fatto boom anche questo. Ma nelle ragioni di quel boom ci sono già in nuce le regioni di un così rapido crollo: la Verità è pesante, onerosa. Il suo uso monopolistico crea aspettative troppo alte. Il tuo “popolo” si infiamma e ti vota se intravede una verità nel Paese che troppe volte l’ha calpestata. Ma poi si “ritira” se il gioco della verità torna in mano, per esempio, a Milena Gabanelli, passata in un batter d’occhio dal rango di candidata al Colle a quello di traditrice, per aver cercato una verità senza maiuscole nel business del blog di Grillo-Casaleggio.
Esplosione e tracollo del grillismo prosperano insieme in un paradosso che mette almeno in parte fuori uso gli strumenti tradizionali dell’analisi politica. Nella società dell’incertezza e del rischio di cui parlano Bauman e Beck – e in assenza di una proposta linguistica, prima ancora che politica, convincente di sinistra – si dilata l’elemento psicologico in politica, trasformando la frustrazione in voti. Con il risultato di indurre a comportamenti “apolitici” (il «non esistono destra e sinistra» del grillismo doc) che in realtà sono iper-politici o ultra-politici, perché chiedono alla politica sempre meno la promozione di ideali o la tutela di interessi e sempre più una guarigione. C’è una crescita delle aspettative terapeutiche. E il grillismo si è proposto come cura, non come riforma. Si tratta però più della cura del sintomo che affligge il paziente-elettore, che di una cura della malattia del sistema; questa richiede l’affinamento di una proposta politica più realistica e meno visionaria. La medicina di Grillo è invece un “no” liberatorio. È quella che Pierre Rosanvallon chiama “politica negativa”. «Le elezioni contemporanee – ha scritto lo storico francese – più che scelte di indirizzo sono giudizi sul passato (…). Siamo così entrati in quella che potremmo definire una “democrazia della sanzione”».
Ma i sanzionatori sono una massa liquida, un non-partito, esattamente come vuole il loro leader. Che perciò non dovrebbe stupirsi più di tanto di uno sgretolamento così repentino in attesa, chissà, di nuovi boom. Le radici del boom e le radici del crollo affondano nello stesso terreno della “democrazia della sanzione”, in cui un non-partito come il M5S ha un avversario potente: il non-voto, indiscutibile vincitore di queste amministrative.
«È cambiato il mondo», urlava Grillo nelle piazze e sulla sua web-tv. Forse voleva dire altro, ma con quella frase evocava scenari “epocali”, suggeriva altre possibili letture (pre-politiche) del suo boom, perfettamente aderente allo spirito del tempo. Un tempo in cui la politologia tradizionale è utile ancora come bussola per la contingenza, ma non più sufficiente per comprendere quanto il voto in massa del 24 e 25 febbraio al M5S sia stato figlio – al di là della scandalosa contingenza italiana – di quella “fine della politica” intesa come fine delle sue narrazioni razionali. Il fatto che una quota consistente del voto al Movimento di Beppe Grillo fosse maturata nei giorni o nelle ore precedenti l’apertura delle urne per le Politiche – come ci hanno spiegato, sondaggisti e analisti di flussi – sembrava deporre a favore di una scelta in molti casi maturata come “scarica” emotiva; quella che ha prodotto il boom. Parente stretta di quella che ha decretato lo sboom alle amministrative.
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Gridare stanca. L’iperdemocrazia logora in fretta i suoi seguaci, pronti a tornare nel limbo del non-voto se il loro voto, con la sua spinta emotiva, pre-politica, sanzionatoria, non ha prodotto altro che un prolungamento di campagna elettorale a urne chiuse. Il flop del M5S – prima alle elezioni regionali del Friuli Venezia Giulia e l’altro ieri alle amministrative – va forse spiegato attingendo alle stesse radici che solo tre mesi fa ne avevano decretato il boom. E non c’è analisi sulla diversità tra il quadro nazionale e quello locale che tenga, di fronte a un tracollo così plateale. C’è dell’altro, un di più.
Il tentativo, in gran parte riuscito, di dar vita a un trust dell’onestà, della diversità e del cambiamento costruito sulla spettacolarizzazione della coppia oppositiva noi-loro, che spiegava in parte il boom del “grillismo” alle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio, si è radicalizzato fino a diventare la parodia di se stesso. E la diversità di quel “noi” non ha mai potuto venire alla luce in campo aperto, visto che il generale Grillo ha ordinato alle truppe scelte mandate in Parlamento da quasi 9 milioni di elettori di restare in trincea a spulciare scontrini e continuare a sparare, ormai a salve, contro di “loro”.
1981, 1992-‘94, 2013: nella storia recente le principali tappe della questione morale, dalla sua prima lucida formulazione da parte di Enrico Berlinguer a oggi, raccontano di sussulti morti in culla. Anzi, in quell’arco di tempo si è assistito a un progressivo indebolimento del tessuto morale della politica e a un moltiplicarsi di impresentabili e corrotti, sullo sfondo di una cosa pubblica – di uno Stato, direbbe Grillo tagliando corto – ridotta a “mangiatoia”. Ecco, è probabile che buona parte dell’elettorato trasversale del M5S abbia sospettato che anche questo sussulto è destinato a morire in culla; e ha dirottato la stessa carica “punitiva” che ha decretato il successo del Movimento alle Politiche sui suoi “liberatori”, così riluttanti a trasformare quella carica in presenza politica effettiva, capace di imprimere una svolta giocando la partita fino in fondo.
La trasversalità del voto al M5S alle elezioni politiche trovava prima facie una spiegazione nell’ecumenismo di un Verbo capace di creare “in negativo” potenziali fedeli, i quali non condividevano il più delle volte né lo status sociale e professionale, né l’età o la provenienza politica e geografica. E quel Verbo era un “no” liberatorio alla Casta, condito da una retorica che ha avuto e ha buon gioco a sparare nel mucchio, a far passare l’idea di un “loro” che fa poche distinzioni tra Nicola Cosentino e Rosy Bindi. Il gioco “in negativo” del grillismo ha dimostrato però di avere il passo del centometrista, più che del fondista.
Pd e Pdl non hanno nulla da festeggiare, beninteso: l’emoraggia continua. Tuttavia il rapidissimo “riflusso” del M5S sembra dimostrare una ben maggiore volatilità dell’elettorato di Grillo rispetto a quelli del centrodestra e del centrosinistra, che si assottigliano ma non si squagliano. I due partiti delle “larghe intese” fanno i conti con i mal di pancia dei rispettivi elettori, pagano il prezzo dell’astensionismo. Ma non nella misura del M5S. Perché se anche l’elettorato berlusconiano e quello del centrosinistra (in misura assai minore) sono trasversali sotto il profilo sociale, lo sono molto di meno sul piano culturale, “antropologico”.
È necessario però tornare alle ragioni del boom del grillismo alle elezioni politiche per comprendere meglio il rapidissimo sboom. A cominciare dal ruolo giocato dalle qualità del leader e dal suo messaggio. Tra gli ultimi botti di Berlusconi e il prolungato allenamento di Renzi, Beppe Grillo ha esercitato la sua arte teatrale e la sua abilità retorica in un modo così professionale da apparire “vero”. Anche perché la Verità gioca un ruolo importante nella sua strategia comunicativa. Non si passa all’incasso di 8 milioni 689 mila voti solo gettando la Rete. Bisogna essere Grillo, riempire il palcoscenico come Grillo. «È così che il tribuno-aspirapolvere è riuscito dove i movimenti anti-Casta (radicali, girotondi, popolo viola…) hanno fallito: nel raccogliere l’universo polverizzato e centrifugo delle mille proteste in un unico frame…», sintetizzava efficacemente Michele Smargiassi sulla Repubblica del 10 marzo 2013, dopo il voto alle Politiche.
Verità e semplicità. Ovvero: la verità è semplice e adesso ve la spiego io. Si tratta forse di una versione più colta di quella “prepotenza della semplicità” – secondo l’efficace definizione dell’antropologa Linda De Matteo – che ha caratterizzato il leghismo. Ma soprattutto più “metropolitana” e portatrice di giochi di verità più convincenti e multidisciplinari rispetto al corpus della Lega Nord. Grillo ha amplificato e finché ha potuto ha soddisfatto il bisogno di vedere una verità, di demistificare l’intera architettura politica, economica culturale come una “truffa”. E lo ha fatto sulle piazze da capopopolo politico come lo faceva in teatro da comico.
La spettacolarizzazione della verità, insieme alla denuncia dei portatori infetti di menzogne, ipocrisie e interessi inconfessabili (i giornalisti in quanto tali), sembrava rendere meno problematico il compito di “saper leggere il libro del mondo”, per dirla con un verso di De Andrè, a un elettorato vittima dell’information overload e forse ancora un po’ spaesato nella nuova era dell’auto-comunicazione di massa. Ma c’era lui, attor-comico, politico e giornalista d’inchiesta insieme. Gatekeeper d’eccezione in un mondo troppo complesso e comunicativo: non leggete i giornali, dicono il falso; il giornale sono io e dico il vero. Ha funzionato, semplificato, ha fatto boom anche questo. Ma nelle ragioni di quel boom ci sono già in nuce le regioni di un così rapido crollo: la Verità è pesante, onerosa. Il suo uso monopolistico crea aspettative troppo alte. Il tuo “popolo” si infiamma e ti vota se intravede una verità nel Paese che troppe volte l’ha calpestata. Ma poi si “ritira” se il gioco della verità torna in mano, per esempio, a Milena Gabanelli, passata in un batter d’occhio dal rango di candidata al Colle a quello di traditrice, per aver cercato una verità senza maiuscole nel business del blog di Grillo-Casaleggio.
Esplosione e tracollo del grillismo prosperano insieme in un paradosso che mette almeno in parte fuori uso gli strumenti tradizionali dell’analisi politica. Nella società dell’incertezza e del rischio di cui parlano Bauman e Beck – e in assenza di una proposta linguistica, prima ancora che politica, convincente di sinistra – si dilata l’elemento psicologico in politica, trasformando la frustrazione in voti. Con il risultato di indurre a comportamenti “apolitici” (il «non esistono destra e sinistra» del grillismo doc) che in realtà sono iper-politici o ultra-politici, perché chiedono alla politica sempre meno la promozione di ideali o la tutela di interessi e sempre più una guarigione. C’è una crescita delle aspettative terapeutiche. E il grillismo si è proposto come cura, non come riforma. Si tratta però più della cura del sintomo che affligge il paziente-elettore, che di una cura della malattia del sistema; questa richiede l’affinamento di una proposta politica più realistica e meno visionaria. La medicina di Grillo è invece un “no” liberatorio. È quella che Pierre Rosanvallon chiama “politica negativa”. «Le elezioni contemporanee – ha scritto lo storico francese – più che scelte di indirizzo sono giudizi sul passato (…). Siamo così entrati in quella che potremmo definire una “democrazia della sanzione”».
Ma i sanzionatori sono una massa liquida, un non-partito, esattamente come vuole il loro leader. Che perciò non dovrebbe stupirsi più di tanto di uno sgretolamento così repentino in attesa, chissà, di nuovi boom. Le radici del boom e le radici del crollo affondano nello stesso terreno della “democrazia della sanzione”, in cui un non-partito come il M5S ha un avversario potente: il non-voto, indiscutibile vincitore di queste amministrative.
«È cambiato il mondo», urlava Grillo nelle piazze e sulla sua web-tv. Forse voleva dire altro, ma con quella frase evocava scenari “epocali”, suggeriva altre possibili letture (pre-politiche) del suo boom, perfettamente aderente allo spirito del tempo. Un tempo in cui la politologia tradizionale è utile ancora come bussola per la contingenza, ma non più sufficiente per comprendere quanto il voto in massa del 24 e 25 febbraio al M5S sia stato figlio – al di là della scandalosa contingenza italiana – di quella “fine della politica” intesa come fine delle sue narrazioni razionali. Il fatto che una quota consistente del voto al Movimento di Beppe Grillo fosse maturata nei giorni o nelle ore precedenti l’apertura delle urne per le Politiche – come ci hanno spiegato, sondaggisti e analisti di flussi – sembrava deporre a favore di una scelta in molti casi maturata come “scarica” emotiva; quella che ha prodotto il boom. Parente stretta di quella che ha decretato lo sboom alle amministrative.
@marpaxi